1 luglio 2011

L’Arabia Saudita “caccerà” tutti i migranti indonesiani (di Mathias Hariyadi)


INDONESIA - ARABIA SAUDITA - La decisione annunciata il 30 giugno. Jakarta risponde che ha solo anticipata la propria decisione di fermare le migrazioni. Ma esperti osservano che Riyadh ha bisogno della forza lavoro indonesiana e Jakarta ha milioni di disoccupati. Occorre, invece, discutere insieme di sicurezza e di diritti. 

Jakarta (AsiaNews) – Non diminuisce la tensione tra Riyadh e Jakarta, dopo la decapitazione di una donna indonesiana in Arabia Saudita. Quest'ultima ha deciso di bandire i lavoratori indonesiani (detti Tenga Kerja Indonesia, o Tki) dal Paese, ma l'Indonesia aveva già deciso di riportare a casa la gran parte dei suoi cittadini migrati in Arabia, per garantirne la sicurezza.
La decisione di Riyadh dovrebbe essere effettiva da oggi. Il ministro indonesiano per le Risorse umane Muhaimin Iskandar ha comunque commentato il 30 giugno notte che “non c’è problema, perché la loro decisione è in sintonia con la nostra moratoria”. Nel corso di un dibattito ha aggiunto che “loro hanno ancora bisogno dei nostri Tki… per cui non siamo preoccupati per la decisione di bandirli”.
Il presidente Susilo Bambang Yodhoyono ha da tempo promulgato la decisione di richiamare in Indonesia una parte dei lavoratori migrati in Arabia, a partire dal primo agosto. Jakarta vuole così protestare per la decapitazione della propria cittadina Rubati bin Satupi, effettuata da Riyadh in violazione degli “standard internazionali”, senza nemmeno informare l’Indonesia (nella foto: un momento delle proteste di piazza indonesiane).
Il bando riguarda circa 1,5 milioni di migranti indonesiani che vivono in Arabia in modo stabile e inviano a casa almeno 2mila miliardi di rupie l’anno. Esperti ritengono che i due Paesi dovrebbero cercare insieme una soluzione, piuttosto che assumere decisioni unilaterali.
Jumhur Hidayat, responsabile dell’Ufficio nazionale indonesiano per il collocamento e la sicurezza dei Tki, spiega che la decisione saudita è in linea con quella indonesiana di fermare questa migrazione, ma teme che “possa causare molti Tki illegali senza documenti ufficiali”. 
Rusdi Basalamah, segretario generale dell’Agenzia indonesiana dei Tki, spiega che ci sono migliaia di lavoratori indonesiani che hanno già chiesto il visto e sono pronti a partire per l’Arabia.
Muhammad Yunus Yamani, responsabile dell’Agenzia, evidenzia come questa situazione crei problemi a entrambi i Paesi, perché “l’Arabia Saudita ha una forte necessità dei nostri Tki e l’Indonesia conta molto sulle rimesse dei Tki dall’estero”.
Anche la Commissione nazionale per il diritti umani delle donne ritiene che qualsiasi divieto di espatrio non avrà effetto, se non si creano possibilità alternative di lavoro per milioni di domestici disoccupati.
Il presidente Yudhoyono si preoccupa, invece, di assicurare l’effettiva presenza all’estero del neoistituito Corpo per la sicurezza dei Tki. Egli osserva che ci sono ora almeno 200 Tki, lavoranti come domestici in Arabia Saudita, Cina, Singapore e Malaysia, sottoposti ad accuse che comportano la pena di morte. “Il 20% di loro – ha spiegato ieri – sono coinvolti in casi di omicidio, mentre gli altri in casi di stupefacenti o di abusi sessuali”. “La Task Force per i Tki deve provvedere loro assistenza legale e adottare ogni iniziative per ridurre al minimo le possibilità di condanna a morte”. “Dobbiamo fare in modo che l’eventuale condanna a morte sia tramutata in carcere a vita”.
Il ministro Muhaimin Iskandar osserva che, comunque, quello della protezione giudiziaria all’estero è solo uno dei problemi dei Tki da discutere con Riyadh. Occorre anche parlare del salario mensile minimo, che Jakarta ha chiesto di portare ad almeno 11mila real (circa 3mila dollari), incontrando peraltro obiezioni.

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