30 maggio 2013

Missionario Pime: dall’Argentina a Phnom Penh, per ricostruire la Chiesa cambogiana

di Dario Salvi

P. Gustavo Adrian Benitez è il primo sacerdote argentino del Pime. Arrivato in Cambogia nel 2000, nel Paese asiatico ha deciso di diventare missionario e dedicare la propria vita all’annuncio del Vangelo. Egli racconta una Chiesa giovane e attiva, che “si apre a tutti” e invita “all’incontro”. E conquista i buddisti per la “dimensione comunitaria”.

Roma - La prospettiva per i prossimi anni è di "crescita continua" ed è proprio questa "la bellezza per noi preti: essere parte della ricostruzione della Chiesa e darle un volto che sia pienamente cambogiano". È quanto racconta ad AsiaNews p. Gustavo Adrian Benitez, sacerdote del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) originario dell'Argentina, ma da 13 anni nel Paese asiatico prima come laico e poi sacerdote. Nato nel 1972 a Resistencia, nel nord-est, oggi è responsabile della parrocchia del Bambino Gesù a Phnom Penh. Primo sacerdote argentino del Pime, egli ha appreso i valori della fede in famiglia, tanto che pure il fratello Nestor è prete diocesano.
P. Gustavo ha compiuto esperienze di missione in diverse zone del Sud America, poi in Canada e infine l'Asia: Hong Kong, Davao nelle Filippine e poi la Cambogia, dove ha collaborato con New Humanity, ong legata al Pime. Nel 2002 la decisione di dedicare la propria vita al sacerdozio e alla missione. Egli è felice per l'ascesa al soglio petrino di Papa Francesco, il quale "ricorda a tutti noi che è compito di ogni cristiano l'annuncio della Parola di Dio". Della Chiesa cattolica i cambogiani ammirano "la dimensione comunitaria, l'apertura e l'invito all'incontro". Per dare forma ad una comunità che si identifica sempre più "con il popolo cambogiano e che trova sempre più forza per camminare sulle proprie gambe".
Ecco, di seguito, quanto ha raccontato p. Gustavo Adrian Benitez nell'intervista ad AsiaNews:

Tu sei argentino, come papa Francesco. Che valore ha la sua elezione per la missione della Chiesa?
Un Papa che proviene dall'America Latina, continente che ha vissuto sulla propria pelle sia l'evangelizzazione sia la colonizzazione, che ha sperimentato l'arrivo dei missionari, ha un gran valore. Egli ricorda a tutti noi che è compito di ogni cristiano l'annuncio della Parola di Dio; un compito che non spetta solo ai preti ma è proprio di ogni battezzato, perché la missio ad gentes coinvolge tutti noi, sacerdoti e laici. L'America Latina e l'Argentina possono dare molto in tema di missione, perché molto hanno ricevuto nella storia, nei secoli passati. Oggi la Chiesa sudamericana è pronta a uscire da se stessa e andare incontro agli altri, anche se persiste un atteggiamento di fondo improntato alla chiusura. In questo senso speriamo che l'esempio di Papa Francesco possa essere prezioso e incentivare. Anche dai documenti dei vescovi dell'America del Sud arriva questo invito forte alla missione.

Per Giovanni Paolo II l'Asia era il "compito" per il terzo millennio. Quanto è importante l'opera di evangelizzazione?
È un compito e una priorità della Chiesa, soprattutto quella cambogiana. A dispetto di una presenza che supera i cent'anni, essa ha dovuto affrontare prove enormi come la guerra, il dramma dei Khmer rossi e le violenze del regime di Pol Pot, quindi un quarto di secolo in cui è stata pressoché assente e vuota. In queste terre che guardano a oriente, la presenza dei cattolici e i valori cristiani hanno un significato enorme.

Qual è il contributo dei cattolici alla società cambogiana?
Una delle cose che i cambogiani ammirano di più di noi cattolici è la dimensione comunitaria. Il buddismo è una religione con una sfera fortemente privata, dove la salvezza passa spesso da se stessi. Per noi, invece, è la comunione e lo stare assieme che dà senso alla resurrezione di Cristo.  Una giovane di Phnom Penh ha voluto iniziare il cammino catecumenale proprio dopo aver scoperto questa dimensione comunitaria dei cattolici, col desiderio di osservarla più da vicino. E una dimensione della carità aperta a tutti, che muove e invita ad andare incontro all'altro.

Come è cambiata la Chiesa cambogiana dal 2000 a oggi?
La Chiesa in Cambogia in questi 13 anni è cambiata tantissimo. Dal 2000, quando sono arrivato come volontario laico, ad oggi il numero dei credenti è cresciuto di molto e ogni anno registriamo almeno cento nuovi battesimi adulti. Un dato che testimonia l'enorme mole di lavoro che tocca noi sacerdoti, assieme ai catechisti e ai laici in genere. Oltretutto, il dato importante è che la Chiesa locale sta prendendo una "forma" propria di Chiesa cambogiana, non più come straniera o come elemento "esterno". Sempre più la fede si identifica con il popolo cambogiano, una realtà che cresce, una Chiesa in movimento che trova sempre più forza per camminare sulle proprie gambe.

Quanto è importante la Chiesa nel ruolo di ponte fra fedi, culture ed etnie diverse?
In Cambogia vi è una fortissima identità nazionale, tanto che all'ingresso nel Paese si notano subito i tre segni distintivi: religione, nazione e regno. Sono elementi che vengono spesso ripetuti, anche dal Primo Ministro [Hun Sen] nei discorsi ufficiali. Ecco che il ruolo della Chiesa e dei cattolici come ponte diventa sempre più importante, anche se difficile. In gioco vi è anche il tema dell'inculturazione, con un delicato equilibrio fra la Chiesa, locale e universale, e la cultura cambogiana. Siamo nel periodo di resurrezione della Chiesa cambogiana, anche se i sacerdoti non sono ancora moltissimi e i seminaristi non abbondano (cinque ad oggi a Phnom Penh). Tuttavia, la prospettiva per i prossimi anni è di continua crescita ed è proprio questa la bellezza per noi preti: essere parte della ricostruzione della Chiesa e darle un volto che sia pienamente cambogiano. 


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